Toni Collette in una scena di Mental di P.J. Hogan (foto Internet)
di Raffaella GiancristofaroVi ricordate Le nozze di Muriel? È stato uno degli ultimi film australiani degni di essere visti. Un misto di commedia romantica e di satira sull’omologazione culturale e il maschilismo razzista latente del Paese. Ecco, il suo regista, P.J. Hogan, e la sua debordante protagonista, Toni Collette (ai tempi era una sconosciuta, oggi è ormai affermata negli Stati Uniti, vedi anche la serie The United States of Tara), a 18 anni di distanza hanno ricomposto il team per Mental, presentato fuori concorso al Festival del cinema di Roma. Il risultato, per fortuna nostra, non è una di quelle patetiche reunion o sequel affannati, semmai una pirotecnica commedia di caratteri femminili. Le cinque figlie del sindaco della città immaginaria Dolphin Heads, un grandioso Anthony LaPaglia, a vario titolo si sentono inferiori e vivono in uno stato di sudditanza psicologica rispetto al padre e a vicini e parenti ossessionati da ordine, pulizia e carineria (incredibile performance della quasi irriconoscibile Kerry Fox, nei panni della vicina maniaca dell’igiene). Quando la loro madre, quintessenza dell’insicurezza, decide di farsi ricoverare in un istituto psichiatrico, a salvare la situazione delle ragazze Moochmore interviene una forza della natura: Shaz (Collette), che sembra una hippie in rehab (e un po’ lo è), ma in realtà è una psicoterapeuta che offre un vigoroso, esilarante trattamento a questa famiglia a pezzi. Quello che sembra uno spin off disturbato di Tutti insieme appassionatamente (platealmente "rivisto" nell'incipit del film) si rivela una sfacciata rivendicazione della diversità (il cinema di P.J. Hogan è sempre stato queer, ma senza essere di nicchia) e il riscatto delle cinque sorelle, capitanato da un'incontenibile Collette, è una liberazione anche per chi sta in sala.
Carlo Verdone in un'immagine di Carlo! di Gianfranco Giagni e Fabio Ferzetti (foto Daniele Cruciani photo courtesy ufficio stampa Festival Cinema Roma)
Si ride anche, ma di tutt’altra comicità, anche nel seguire Carlo! di Gianfranco Giagni e Fabio Ferzetti (critico che seguiamo appassionatamente sulle pagine del “Messaggero”), documentario elegante e spigliato su e con Carlo Verdone. Un ritratto non apologetico ma in profondità, alla ricerca delle connessioni tra realismo e comicità, persona e personaggio. La galleria di maschere televisive con cui Verdone si fece conoscere dal grande pubblico e con cui poi passò al cinema viene riletta alla luce di una comprensione garbata, mai autocompiaciuta, della romanità e dell’italianità in generale, intendendo per queste la gamma di peculiarità nostrane sfruttate al massimo dalla commedia all’italiana e progressivamente scomparse negli ultimi tre, quattro decenni per via di un’omologazione causata non solo dalla tv. Verdone non si risparmia, si mette a disposizione degli intervistatori – tra cui il compagno di studi Filippo La Porta, che rievoca gli anni sui banchi insieme al comico e a Christian De Sica – e il risultato è quello che vorremmo vedere di più, non solo nella programmazione dei festival ma anche nei palinsesti televisivi, a maggior ragione quelli di servizio pubblico: un lavoro documentato, dal linguaggio semplice e scrupoloso, montata con la rapidità e la leggerezza di chi è già spettatore esperto e non sopporta sbrodolamenti o divagazioni accademico-narcisistiche. Oltre al carattere riservato e ipocondriaco di Verdone, emerge con chiarezza la sua qualità migliore, ossia la capacità di osservare e riprodurre nel più piccolo dettaglio l’umanità. Vale a dire ciò che si riconosce e si apprezza in ogni artista che si possa dire tale. La dose extra di divertimento sta nei racconti aneddotici su amici e soprattutto milieu familiare (favoloso lo scherzo fatto al padre), nel ripercorrere una carriera di tipi italiani le cui cattive abitudini ci sembra, anche grazie a Verdone, di punire con una risata.